L’abbandono

“Caro Leo,
da quando te ne sei andato via da questo buco di città, qualcuno ha spento tutte le lampadine che già erano vecchie e stanche.
La mattina non ho più motivo di prendere il caffè e riempire la tazza di cereali fino a farle una cornice, per poi versare quel poco di latte che riusciva a infilarsi tra gli anellini al miele. Non ha senso perché poi non ci sei tu che imiti la mia bocca piena di Cheerios che ogni volta che la fai rischio di soffocare. Mi manca anche quando guidavi la sera a tutta velocità per le stradine del centro e poi giù per il lungomare, che era uno spettacolo vedere le stelle che ci inseguivano per la strada e pensare di essere più veloci di loro per un attimo e nel frattempo la paura di andare a sbattere o cadere giù con tutta l’auto in mare. Ascoltavamo gli Explosions in the sky e ci si gonfiava il petto ogni volta, mentre tu guidavi e io mi tenevo fermo al sedile, e gli occhi lucidi per la felicità brillavano con la luna.
Ma tu ti ricordi tutto questo, non hai bisogno che ti scriva l’ennesima lettera piena di ricordi. Voglio solo che tu torni il più presto possibile, per rifare tutto anche meglio di prima.

Tuo fratello,
Victor”.

Presi il foglio di carta e lo misi in una busta bianca, come al solito. Il bianco è il colore preferito di Leo: dice che un colore che ha in sé tutti gli altri non può essere che il migliore. Uscii di casa per fare la solita, vecchia strada. Passai davanti al chioschetto di Maurice, che  mi diede subito un panino al prosciutto e una Coca Zero, che infilai nello zaino mentre davo lui i soliti due euro e cinquanta. Scesi giù per la via principale, salutando Jérémy e Gerard, che mi diedero dritte sulle scommesse calcistiche della Domenica: dicevano che il Monaco l’avrebbe vinto di sicuro quest’anno il campionato, che avrebbero scommesso a occhi chiusi su una sua vittoria. Predissero che questa domenica avrebbe battuto il PSG addirittura 3-0. Annuii finché non se ne andarono a dire tutto il contrario al prossimo malcapitato.

Era una giornata di merda, proprio come quella in cui te ne sei andato: il vento freddo e veloce si infilava fin dentro i cappotti, mentre le nuvole grigie facevano da tetto alla più grande stanza mai vista. Cominciò a cadere, come quel dannato venerdì, una pioggerellina fitta  che sembrava che tutti stessero piangendo: non che qualcuno sorridesse, comunque.

Cominciai a correre per la strada lungo il marciapiede, evitando per poco di schiantarmi contro Grace, che andava spedita nel verso opposto. La salutai, mentre tenevo la busta dentro il cappotto per non bagnarla. La mia corsa si interruppe dopo poco, le sigarette si facevano sentire col fiatone e il sudore che colava nonostante il vento la pioggia e tutto il resto.

Arrivato finalmente al campo, sapevo ormai dovevo andare. Terza dalla sinistra della dodicesima fila.
Lèonard Weiss, ragazzo, figlio, amico.

Fratello, avrei aggiunto io.

La pioggia nel frattempo aveva smesso di cadere: ormai solo le  lacrime rigavano il mio viso, salate graffiavano lentamente senza fare male. Presi la lettera dalla tasca: era intatta, proprio come le altre.
Con un gesto ormai divenuto abitudinario per il mio corpo, ma non per la mia anima, presi l’accendino, accesi una sigaretta e bruciai la lettera completamente, fino a ridurla in cenere.

Leggeri, i resti volarono via, mentre speravo che ti arrivasse, in qualche modo, il mio stupido messaggio:

Senza di te io non sono niente, senza di me tu non eri niente.
Era insieme che diventavamo tutto.